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  • “Memorie, in viaggio”: nuova mostra in Atelier e apertura straordinaria al pubblico 6-7 aprile.

  • Dal 14 Marzo al 1 Settembre presente in "1924-2024. Un secolo di storia dell' Università degli studi di Trieste".

  • Dal 16 dicembre 2023 al 19 maggio 2024 presente in “Materia e Memoria” a Suzzara (MN)

Tullio Vietri

Scritti

Scritti
Breve antologia di scritti scelti tra i più significativi
della bibliografia generale, scritti di Vietri e su Vietri
Scritti di Tullio Vietri
Arte astratta e arte realistica
Tullio Vietri, in “La Squilla”, Bologna, 18 dicembre 1958
Vorrei proprio iniziare questo mio intervento sull’arte contemporanea con alcune parole di G. Lukacs, atte a liberare il campo di discussione da alcuni equivoci molto comuni, relativamente ai problemi della forma e del contenuto: “le più notevoli produzioni artistiche, pur essendo sempre ed inscindibilmente attuazioni di grandi principi formali, impostano sempre i più importanti problemi formali in modo più o meno nuovo. E’ chiaro che ciò non significa affatto che nello svolgimento dell’arte abbia luogo un’ininterrotta rivoluzione formale e tanto meno che una rivoluzione siffatta sia l’elemento essenziale di ogni balzo in avanti”. Mi pare che su questa formulazione si possa concordare senza riserve. Un esame anche sommario delle opere valide di tutti i tempi mi sembra sufficiente a tal fine; ogni opera valida ha una sua struttura ben precisa e particolare che la caratterizza, una forma nuova che la rivela e la inserisce in un quadro storico determinato. Interessante a tal proposito potrebbe essere un esame del mutamento generale (e non nelle singole personalità, anche se può sembrare più giusto a prima vista) di determinate impostazioni e soluzioni formali nel quadro storico-sociale reale nel quale si sono verificate, tenendo conto naturalmente delle inevitabili e ovvie mediazioni culturali cui i nuovi fermenti danno luogo. Si vedrebbe così effettivamente che la “la novità decisiva e feconda” non è la forma in sè (se non apparentemente nell’opera compiuta), ma “è sempre il contenuto nuovo, che proviene da mutamento della realtà storico-sociale, che ne costituisce il rispecchiamento” (Lukacs, Critica Letteraria). E quindi la forma non è altro che la forma del contenuto, la forma del rispecchiamento della realtà storico-sociale (nella sua accezione più lata). In questo quadro, ma solo in questo quadro, mi pare si possano inserire concretamente le discussioni sui problemi della forma, ed in particolare quelli della nuova forma. In poche parole, il problema della forma nasce come ricerca di soluzioni del problema dell’espressione del rapporto tra produttore e realtà, “di quell’amalgama sociale – per usare le parole di M. Gorkij – che rende spiritualmente ed artisticamente possibile un profondo e vasto rispecchiamento della realtà”. Altro problema questo punto ci pone: se il produttore, l’artista, come ogni essere è un prodotto storico, non è forse necessario che si inserisca coscientemente nel processo storico generale per coglierne tutti gli aspetti, e negativi e positivi, per ricercarne le linee costanti e permanenti di sviluppo? Mi sembra un problema importante in funzione di quello che è il processo di chiarificazione interiore di ogni personalità e quindi non solo ai fini di una chiarificazione del quadro storico-sociale generale in cui si inserisce una personalità. A tal proposito appare opportuno un altro esame che è quello relativo alla formazione degli intellettuali nel nostro paese, con particolare riguardo alla storia passata e presente degli artisti: e l’esame del loro inserimento nella vita sociale nelle diverse epoche (modi e condizioni di esistenza, rapporti con le diverse classi sociali, rapporti mecenate-produttore, produttore-mercato e produttore-critica ufficiale nei diversi momenti storici). Potremmo così spiegarci il fenomeno anti-realistico al suo sorgere e nelle sue diverse fasi di evoluzione. E opportuno appare, inoltre, uno studio dei motivi reali delle diversificazioni, dei mutamenti non solo formali, quindi apparenti, entro il processo dell’irrealismo, dovendosi negare una storia autonoma delle forme, con ciò non negandosi però, una relativa autonomia di sviluppo dell’attività artistica, per cui la singola attività artistica inevitabilmente si riallaccia alla precedente, pur sviluppandola, modificandola in un processo naturale di evoluzione e di superamento del vecchio verso il nuovo. D’altro canto è necessario compiere un’altra indagine relativa alla continuità storica del processo di sviluppo da modi e forme di produzione artistica precedenti a forme e modi attuali, e diretta ad accertare se vi sia o meno una rottura in essa continuità storica, rottura che non può determinarsi per le semplici correzioni e per lo sviluppo proprio del processo, ma che solo può essere provocata dall’abbandono di tutta una tradizione nel tentativo, vano e illusorio, tendente ad una costruzione ex novo. Con ciò non voglio dire che tale semplice tentativo di creazione di una nuova arte, di una nuova pittura, non sia giustificato e sentito, ma l’errore di impostazione del problema di fondo, reca come inevitabile conseguenza una errata soluzione. Infatti “che si debba parlare” per essere esatti di una lotta per una nuova cultura e non per una nuova arte (in senso immediato) pare evidente. Forse non si puà neanche dire per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto nell’arte, perché questo non può essere pensato astrattamente separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò è assurdo, poichè non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà, e quindi di mondo intimamente connaturato con gli “artisti possibili” e con le “opere possibili” (Gramsci, Letteratura e vita nazionale). Non mi sembra sia questo il tentativo attualmente in essere per una “nuova arte”. In effetti il rinnovamento (se così può chiamarsi) rappresentato dagli “ismi” astratti, oggi (e sottolineo oggi, poichè per Kandinsky o per Mondrian il discorso è un altro), è costituito da un mutamento della pura forma e non dal rinnovarsi del nesso reale forma-contenuto, con la conseguenza, purtroppo, per molti, per troppi giovani, anche molto dotati, di lavorare nel vuoto con uno sforzo e in una direzione effettivamente e praticamente (ai fini dell’approfondimento ed estrinsecazione della propria personalità) completamente inutili. Non gratuitamente Cesare Brandi ne “La fine dell’avanguardia” definisce tale lavoro “onanismo intellettuale” se si vuole rimanere nel campo dell’estetica, o mera decorazione se si consente di uscirne. Mi pare che questa impostazione consenta di spiegare, nonchè i fenomeni di improvvisa notorietà di alcuni artisti, seguita molto rapidamente da altrettanto improvviso e inspiegabile (almeno apparente) oblio, il fenomeno ben più importante del cosmopolitismo epigonico astratto, come si è potuto rilevare ampiamente nell’ultima Biennale veneziana, ove, i padiglioni delle nazioni partecipanti offrivano un desolante e squallido quadro dell’”esperanto” astrattista oggi dilagante. A tal proposito (nuovamente riporto dall’opera citata di Gramsci) si può condividere quanto Benedetto Croce ebbe ad affermare in “Troppa filosofia” del 1922: “… quando un’opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si è formato è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con l’imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere: per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica; il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede l’intervento dell’elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale. I più alti critici di poesia ammoniscono in questo caso di non ricorrere a ricette letterarie, ma come essi dicono, di rifare l’uomo. Rifatto l’uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di affetti, da essa sorgerà una nuova poesia”.
Inchiesta su censura e spettacolo, in “Il Ponte”
Tullio Vietri ( intervista a ) novembre 1961
(Nel numero del mensile di politica e letteratura Il Ponte dedicato a Censura e Spettacolo in Italia, sessantotto intellettuali rispondono ad un questionario di cinque domande; tra gli interpellati Nicola Abbagnano, Enzo Biagi, Dino Buzzati, Italo Calvino, Pietro Germi, Massimo Mila, Pier Paolo Pasolini, Mario Praz, Carlo L. Ragghianti, Natalino Sapegno, Roberto Tassi, Antonello Trombadori, Giuliano Vassalli e Bruno Zevi. Le prime domande (cui si riferisce la risposta di Tullio Vietri) chiedono: 1.- L’art. 3 del Reg. 24 settembre 1923 n. 3287 concede il nulla osta alla pubblica programmazione dei film, solo allorchè … siano rispettati e tutelati i seguenti istituti, ordinamenti e valori: pudore, morale, buon costume, pubblica decenza, reputazione e decoro nazionale, ordine pubblico … Inoltre nel film non debbono esservi scene che costituiscano l’apologia di un reato, incitino all’odio tra le classi sociali, rappresentino scene … truci, ripugnanti e di crudeltà … Secondo la Sua opinione questa tutela è sufficiente, insufficiente od eccessiva? 2.- Cosa pensa che la censura debba intendere (in relazione alla concessione o meno del nulla osta) per morale (pubblica o familiare)? per buon costume? per ordine pubblico? per reputazione e decoro nazionale? per scuola ed incentivo al delitto? 3.- Lei ritiene che la censura italiana nei confronti delle varie opere teatrali e dei vari film presentati nel nostro paese, sia stata … troppo rigorosa o troppo corriva oppure invece equa?) La tutela prevista dall’articolo 3 della Legge sulla censura mi pare dettata da una concezione della realtà e dei rapporti fra gli uomini superata ormai dalla storia, che si fonda su una pretesa assenza di contraddizioni interne della società attuale e della lotta tra le classi sociali. Concezione statica ed idillica che si traduce, a mio avviso, nella tutela di valori non chiaramente definiti … Pertanto il problema di dare un contenuto attuale a parole quali pudore, buon costume, pubblica decenza, i primi che la norma elenca, è il problema del rapporto tra questi valori e l’arte cinematografica, tra essi e la libertà di espressione artistica. Problemi complessi e di difficile soluzione nel nostro periodo storico. Dall’epoca della prima rivoluzione industriale l’uomo assiste al rapido abbattimento di idoli e feticci, di tradizioni e miti, di pregiudizi e credenze plurisecolari, al rapido sbalorditivo progresso delle tecniche produttive e delle scienze, oggi alla conquista dello spazio. Ma l’industrializzazione nella nostra società ha dato non solo questo agli uomini, ma anche il lavoro salariato, l’alienazione da sè, l’anti-umanesimo. L’uomo ha così smarrito se stesso ed un concetto qualsiasi del bene e del male come attestato dai prodotti della cultura europea degli ultimi sessanta anni, come è atrocemente testimoniato dai campi di sterminio nazisti. Che cosa rimane allora dei valori ed istituti indicati dalla legge quale reputazione e decoro nazionale, decoro e prestigio delle istituzioni ed autorità pubbliche, ordine pubblico? Appare più che mai evidente la preoccupazione immediatamente politica del legislatore, non casualmente fascista, tendente alla conservazione sociale. Ed alla conservazione sociale è diretta la legge poichè la tutela di valori transeunti e non certi, accolti come certi ed universali, si traduce in strumento di obnubilazione delle coscienze, in strumento di corruzione civile, morale e politica, quale remora ad ogni libera, anticonformista, spregiudicata ricerca dei valori veri, reali della nostra epoca, della nostra società, dell’uomo di oggi. L’uomo cerca ancora se stesso mediante tutti gli strumenti a sua disposizione, e quindi anche attraverso l’arte, il cinema, il teatro. A nessun altro compito mi pare adempia la censura anche laddove tende alla tutela delle scene di crudeltà, delitti, suicidi perché l’uomo di oggi ha vissuto atrocità e crudeltà inenarrabili e subito atroci ferite nella sua stessa carne, sia esso ariano o ebreo, sia esso vecchio, donna o fanciullo, partigiano, civile o militare, poichè tutti, ebrei, ariani, donne, vecchi e fanciulli, hanno conosciuto la guerra nei suoi aspetti peggiori, la fame che prostituisce, l’annientamento morale, le sevizie dei campi di sterminio, gli incendi, gli stupri, le violenze, gli eccidi delle bande naziste e fasciste, perché nel cuore e nella coscienza dell’uomo di oggi sono scolpiti per sempre, con tutta la loro carica di orrori e di miserie, i nomi di Buckenwald, di Auschwitz, di Dachau, di Lidice, di Marzabotto. E nuova conferma che trattasi di strumento di dominio la si ha nel fatto che mai i valori e gli istituti tutelati sono visti in rapporto all’opera cinematografica, in relazione alle necessità espressive. Per cui frutto di compiacimenti erotico-sessuali o di estetismi e tecnicismi gratuiti e inespressivi, sono tollerati dalla censura (vedi la produzione americana e italiana a livello commerciale …), che non tollera invece opere che pur fanno leva sui più nobili sentimenti dell’uomo, in quanto portatrici di idee non convenzionali, perché realistiche analisi, vere e proprie vivisezioni della società contemporanea (Rocco e i suoi fratelli di Visconti, L’avventura di Antonioni ed altri). Tali sono i motivi che credo validi per eliminare ogni forma di censura sulle opere destinate agli adulti, esclusa ogni arbitraria e codina discriminazione tra essi.
Il disagio dell’intellettuale
Tullio Vietri, in “Questioni d’arte”, luglio 1969
(…) L’arte … insegna Renè Koenig non è mero fatto interiore dell’artista, mera visione. E’ fatto oggettivo e quando assume espressione concreta nell’opera realizzata diventa realtà sociologica e come tale deve essere considerata. Poichè l’individuo molto prima della produzione di un’opera d’arte porta in sì uno spirito collettivo con il quale si esprime e si rivolge a gruppi di spettatori, l’arte deve considerarsi condizionata dalla costellazione artista-esperienza artistica-pubblico oppure produttore-esperienza artistica-consumatore, insieme con i mediatori della vita artistica (mecenati e critici) e coloro che la preparano (educatori e studiosi) e ai mercanti d’arte. Tutto ciò gli artisti hanno compreso. L’arte di oggi non è più sollecitata dall’evasione, dalla rinuncia al mondo, come dice Pièrre Rèstany, ma sempre più disalienata sul piano individuale, è tesa ad assicurare la felicità dell’uomo di oggi. L’artista di oggi infatti non pretende più di imporci la sua visione egocentrica di un mondo interiore che ripudia anche il minimo richiamo del reale immanente, non sfugge più il caos delle apparenze, ha ripreso fiducia nell’Uomo attraverso la scienza e la tecnica e intende partecipare pienamente alla elaborazione continua del nuovo ordine del mondo.v Appunto da tale partecipazione nasce il disagio dell’artista di oggi. L’artista non si riconosce più come artista separato dalla società, separato nella sua propria funzione di artista, produttore di poesia e/o di merci, ma come intellettuale, come cittadino, come uomo politico. Ma riconoscersi come intellettuale vuol dire innanzitutto proporre una concezione dell’arte come conoscenza, come critica, non come mera tecnica operativa, priva di rilevanza problematica e senza connessione con i reali problemi storico-sociali, e destinata ad avere funzione sociale irrilevante o ad essere arma di dominio e di oppressione. Vuol dire proporre una concezione dell’artista come soggetto del suo proprio “farsi artista” e come autointerprete delle proprie esigenze artistico-scientifiche-didattiche, della propria formazione culturale e il rifiuto nel contempo di una concezione dell’artista come oggetto più o meno passivo di un processo di formazione all’interno del quale libertà di scelta culturale e autonomia conoscitiva sono state programmaticamente escluse e condizionate comunque. Vuol dire esigere lo sviluppo della preparazione artistica in stretta connessione con la consapevolezza problematica, rifiutando le irrilevanze significative, il tecnicismo acritico, l’incapacità di porsi e porre problemi socialmente e quindi umanamente significativi e di individuare gli strumenti operativi per risolverli. Porsi come intellettuale vuol dire concepire l’arte come ricerca artistica. La ricerca artistica racchiude potenzialmente una relazione con la realtà in cui sia rotto il cerchio dell’automistificazione precisa ed efficace, pur tenendo presente che lo specialismo tecnico non può essere superato con istanze umanistiche astratte e generiche e poco impegnative … Il reale effettivo umanesimo passa attraverso i problemi tecnici e specialistici, avanza nella misura in cui riesce ad intendere il senso di tali problemi nella totalità sociale. (…) La ricerca artistica è come tale una attività intrinsecamente critica che comporta inevitabilmente delle conseguenze sociali. La ricerca è infatti destinata ad intaccare i miti e gli stati puramente emotivi, i pregiudizi tradizionali ma privi di qualsiasi base logico-etica, le aberrazioni individuali e di gruppo, i regimi politici che si reggono sul consenso artificialmente creato e mantenuto da masse umane cui viene sottratta, attraverso strumenti moderni di comunicazione di massa, ogni possibilità di giudizi critici autonomi. Una ricerca artistica in senso proprio pone sempre un problema “politico” ed è pertanto sempre e necessariamente in rapporto diretto con una determinata realtà sociale, in rapporto diretto con lo sviluppo dell’umanità e dei suoi problemi decisivi. D’altro canto a meno di non partire da una teoria ultrastorica della natura, o a meno di non considerare l’uomo nella società come una entità astorica, non si puà sostenere che l’arte trascende la storia stessa. In realtà non vi è arte degna di questo nome che non sia arte storica. Senza l’uso della storia e senza un senso storico delle questioni psicologiche l’artista non può formulare adeguatamente quei problemi che dovrebbero essere i punti di riferimento e orientamento della sua ricerca, dei suoi studi, del suo lavoro. Consapevolezza problematica che non può tuttavia esistere senza una autentica immaginazione sociologica che permetta di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Riconducendo in tal modo il disagio personale, l’insoddisfazione, l’alienazione dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasformando la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici. Perché … afferma Lukacs, si conservano soltanto le opere d’arte che in senso ampio e profondo si ricollegano allo sviluppo della umanità in quanto tale. Le opere d’arte o cosiddette tali, che pur reagendo vivacemente a certi problemi quotidiani non sono peraltro in grado di svilupparli fino a toccare i problemi decisivi dello sviluppo dell’umanità (e sia in senso positivo sia in senso negativo) invecchiano in un tempo relativamente breve. Fattore indispensabile dell’opera d’arte è quello della efficacia immediata sul presente, segno distintivo di ogni arte, che può verificarsi a livello profondo o superficiale. (…) Ma i difensori dell’arte per l’arte … non sostengono soltanto che l’effetto artistico è assolutamente sovrano e che esso si fonda sulla compiutezza microcosmica dell’opera d’arte, ma sostengono anche che ogni riferimento a una realtà al di fuori dell’opera distrugge irrimediabilmente l’illusione estetica. Questo, in sè e per sè, può essere anche giusto, solo che non bisogna dimenticare che questa illusione non esaurisce affatto tutto il contenuto dell’opera d’arte e che essa non rappresenta il fine esclusivo e anzi nemmeno il fine più importante dello sforzo dell’artista. Perché se è anche vero che noi per entrare nel circolo magico dell’arte dobbiamo disimpegnarci in una certa misura dalla realtà, tuttavia non è meno vero che ogni arte autentica riconduce con un giro più o meno largo alla realtà stessa. La sua grandezza consiste in una interpretazione della vita che ci aiuta a dominare meglio lo stato caotico delle cose e a ricavare dall’esistenza un senso migliore, più impegnativo e più sicuro. (…) L’opera d’arte autentica, in confronto ad altri prodotti artistici esteticamente senza valore, vale in quanto riuscita vera e giusta, adeguata al suo scopo, alla sua idea e ai suoi mezzi. Più problematico è invece l’altro aspetto della validità che rientra nell’ambito dei giudizi estetici. In questo secondo caso il valore estetico si dovrebbe alla circostanza che nella sua attività creativa l’artista si orienta secondo principi formali ultrapersonali, secondo regole e norme generalmente valide e che il livello della sua realizzazione dipende sostanzialmente dal fatto che egli riesca, e dalla misura in cui riesce a conformarsi a queste leggi. Qui evidentemente si tratta di un completo disconoscimento della natura dell’arte e del trasferimento meccanico del concetto di validità logica all’oggetto dell’estetica. Se nel campo dell’arte si può parlare di validità, questo avviene soltanto nel senso che i valori già realizzati si presentano con un determinato significato oggettivo e con una certa esigenza di riconoscimento, ma ciò non vuol dire che siano valori assoluti, fissati a priori e validi di per sè, che debbono o possono essere realizzati dall’artista. (…) La teoria dell’arte che si orienta in base a questo concetto della validità scorge nell’opera singola l’applicazione o la variazione di un modello ideale; essa la considera come “caduta dal cielo” mentre il suo creatore non avrebbe che una funzione mediatrice. Questa invenzione è certo necessaria per la giusta comprensione dell’opera d’arte che deve essere concepita come una struttura completa, una configurazione separata da ogni rapporto con l’esterno, per diventare oggetto di una spiegazione più ampia. Ma l’ipotesi di questi principi formali fissati a priori è in fondo soltanto una ipotesi di lavoro; le leggi estetiche sono valide solo se si presuppongono certi bisogni psichici. Le opere d’arte non devono mai la loro efficacia ed il loro valore alla circostanza che esse soddisfano a norme astratte indipendenti dalla costituzione psichica dell’osservatore, ma soltanto al fatto che esse soddisfano esigenze concrete, storicamente e psicologicamente condizionate, contingenti e mutevoli. Senza queste esigenze il riconoscimento che la validità di un’opera o di una norma trova nel campo dell’arte non sarebbe affatto spiegabile. Ma quando i bisogni e le esigenze cambiano nessuna norma conserverà la sua validità generale, e un valore sarà ricostruibile soltanto a posteriori in base a bisogni già conosciuti e appagati. I valori artistici sono realtà concrete storiche; essi esistono soltanto a partire dal momento in cui prendono corpo. L’artista non li “scopre”; egli li “cerca”. L’artista si trova sempre in una determinata situazione storico-sociale e si comporta, spesso senza saperlo e senza volerlo, in modo corrispondente alle sue necessità. (…) L’arte di oggi diventa necessariamente arte contro la manipolazione poichè la manipolazione è la caratteristica di fondo del nostro tempo, della società stabilita. Kofler sostiene infatti che la “Integrazione volontaria” non significa più per la coscienza spontanea ed ingenua, per l’uomo della strada, come significava originariamente “partecipare alla sostanza delle riflessioni” e delle conclusioni razionali ma “partecipare alla sostanza di una educazione irrazionale, a cieco assenso”. (…) Infatti con i mezzi della grande industria sorge un prodotto destinato al consumo di massa che rende necessario uno speciale apparato per portare milioni di mezzi prodotti ai singoli consumatori. Il sistema della manipolazione è sorto da questa necessità e si è poi esteso anche alla società e alla politica. Ora questo apparato domina tutte le espressioni della vita sociale, dalla elezione del presidente fino al consumo di cravatte, sigarette. (…) Ma proprio oggi sorge un nuovo problema: quello della manipolazione che eleva una barriera all’interno degli individui, tra la loro esistenza e una vita sensata. La manipolazione infatti del consumo non consiste, come si afferma ufficialmente, nel fatto che si vogliono informare i consumatori su quale è il migliore frigorifero o la migliore lametta da barba, ma piuttosto nel controllo delle coscienze. A causa della manipolazione l’uomo che lavora è allontanato dal problema di come potrebbe trasformare il suo tempo libero in “otium”, perché il consumo gli è instillato sotto forma di una pienezza di vita fine a se stessa, così come nella giornata lavorativa di dodici ore la vita era stata dittatorialmente dominata dal lavoro. La difficoltà sta ora nel fatto che deve essere organizzata una nuova forma di resistenza che per non può consistere in nient’altro che in un lavoro ideologico teso a rendere sempre più chiaro come questa manipolazione sia contraria agli interessi propriamente umani. (…) La formazione di una minoranza cosciente è il presupposto di un movimento di massa. Ed è questo compito degli intellettuali, degli uomini di cultura e soprattutto degli artisti. (…) In effetti la coscienza di classe è resa più difficile soprattutto dal fatto che la industria dei beni di consumo, che manipola la libertà nel campo della letteratura e dell’arte, ad esempio, conduce ad una permanente riduzione della potenzialità spirituale della grande maggioranza della popolazione e degli artisti stessi. La verità è il fine della libertà, e la libertà deve essere definita e limitata dalla verità. Libertà è autodeterminazione, autonomia. La libertà stabilisce l’abilità di ognuno nel determinare la propria vita: essere in grado di determinare cosa fare e cosa non fare, cosa tollerare e cosa no. E il problema di rendere possibile una tale armonia tra la libertà di ogni individuo con l’altro, non è quello di trovare un compromesso tra i competitori o tra le libertà e la legge, tra gli interessi generali e quelli individuali, il benessere comune e quello privato in una società stabilita, ma quello di creare la società in cui l’uomo non è più schiavo delle istituzioni che viziano l’autodeterminazione fin dagli inizi. E non è chi non veda che il primo compito per gli artisti in tale quadro di problemi è proprio quello di rivendicare per sè, immediatamente tale libertà, di rivendicare la libertà di autodeterminarsi e di autogovernarsi. Ma autogovernarsi vuol dire innanzitutto affrontare il problema della deistituzionalizzazione di tutte le mostre da un lato e dall’altro, della destrutturazione del rapporto artista-esperienza artistica-mercato così come stabilito. Come giustamente osserva Walter Benjamin il feticcio del mercato d’arte è il nome del maestro. L’artista moderno deve concorrere a distruggere tale feticcio. Sopprimendo la nozione di valore dei prodotti mentali, per cominciare, il simbolo di questo valore, il loro prezzo in denaro. Soltanto così ne risentirebbe quel commercio che cerca di rendere stabile il mito della cultura e ne appoggia l’autorità. La collusione fra commercio e cultura è strettissima, radicale, essi si spalleggiano e si rafforzano reciprocamente; l’uno senza l’altra non può esistere; l’una è complice dell’altro. Distrutto tale feticcio si instaurerà un nuovo rapporto funzionale artista-esperienza artistica-pubblico che concorrerà alla trasformazione del “gusto” corrente. (…) E’ per queste ragioni che artisti rivoluzionari, anticonformisti, di tutte le provenienze politiche, ideologiche ed estetiche oggi rifiutano di partecipare a mostre deliberate dalla burocrazia delle istituzioni culturali a qualsiasi livello appartenenti, dai burocrati della cultura stabilita, dagli ideologi e dai persuasori più o meno occulti, detentori del potere di manipolazione delle coscienze. E’ per queste ragioni che rifiutano il mercato stabilito e le sue lusinghe. E’ per queste ragioni che rifiutano gli inviti ed i premi e le gerarchie dei valori ed il mercato che tali valori determina. E’ per queste ragioni che si riuniscono in libere assemblee unitarie, interdisciplinari (pittori e scultori, poeti e musicisti, registi ed attori, critici d’arte, critici cinematografici, teatrali, letterari e musicali) alle quali liberamente vengono invitati a partecipare studenti e operai, ed il pubblico tutto interessato alle questioni d’arte, alle questioni, afferenti alla vita degli uomini di oggi. E’ per queste ragioni che fanno appello a tutte le organizzazioni democratiche a tutti i comuni democratici, perché favoriscano tali incontri, perché diano a tali assemblee i contributi necessari alla realizzazione dei piani da esse deliberati di intervento creativo e organizzativo, perché per primi, in modo esemplare, rinuncino a propri piani di politica culturale (anche se l’attuazione ne è delegata a “specialisti”) concernenti le arti figurative contemporanee, qualora tali piani esorbitino dalla mera incentivazione dell’autonomia e dell’autogoverno degli artisti.
Il cantare l’umano amore e dolore è l’ufficio dell’arte-poesia
Tullio Vietri, Nel pessimismo dell’intelligenza e nell’ottimismo della volontà, in “Critica Radicale”, 1989
(…) Che la comunicazione di sentimenti veicolanti idee, nell’opera d’arte sia assolutamente necessaria lo afferma nel nostro secolo, oltre a Worringer (1881-1965) … anche uno dei più grandi storici d’arte contemporanei. Dice infatti Ernst H. Gombrich nel 1981 in Natura e Arte come esigenze spirituali (conferenza raccolta in Custodi della memoria. Tributi ad interpreti della nostra tradizione culturale, op. cit. p. 96) che “interessa rilevare come, una settantina d’anni fa, agli stili fosse ancora attribuito un significato emotivo. Tutto sommato, questo atteggiamento era preferibile ad un approccio puramente asettico ed erudito. L’arte esige un coinvolgimento, altrimenti diventa artigianato. Si può amare o odiare la pittura di genere, si può avere un debole per Van Gogh o sentirsi più vicini a Poussin. In ogni caso è sempre possibile scoprire nuovi linguaggi, nuovi maestri, nuove opere che ci offrono nuovi modi di vedere, di sentire e di comunicare”. E rimanendo ancora nel nostro secolo, lo afferma anche il grande storico dell’arte Henri Focillon in Vita delle forme del 1934 (trad. it. Einaudi, Torino 1972, saggio raccolto in La Critica d’Arte della pura visibilità e del formalismo a cura di Roberto Salvini, p. 311). Scrive infatti Focillon che “L’idea dell’artista è forma e la sua vita affettiva assume lo stesso aspetto. Tenerezza, nostalgia, desiderio, collera, sono talvolta, ma non necessariamente, più ricche di colore e di sfumature in lui che negli altri uomini. Egli è immerso nella vita e vi si abbevera. E’ umano e non professionale. (…) Ma il suo privilegio è di immaginare, di ricordarsi, di pensare e di sentire per mezzo delle forme”. Noi “non diciamo che la forma è l’allegoria o il simbolo del sentimento, ma la sua attivitù propria: la forma agisce il sentimento. Diciamo se si vuole, che l’arte non si limita a rivestire di una forma la sensibilità, ma che essa suscita nella sensibilità la forma”. E’ ovvio pertanto che le opere d’arte che non sono espressione di sentimenti veicolanti idee sono da considerare, come dice Dante nel Convivio “viziose dilettazioni”, giudizio questo analogo a quello espresso da tutti i filosofi del periodo come dice Panofsky della prima Rinascenza (Ugo di San Vittore e Tommaso d’Aquino compresi) che è bene, in questo grave momento di crisi morale e politica, e pertanto di crisi culturale (che è crisi della stessa democrazia, come assevera Norberto Bobbio, perché la nostra società è sempre più dominata da oligarchie e corporazioni), riproporre nella sua forma epigrafica più solenne: “Mira sed perversa delectatio”. Perché possa essere invito solenne ad attento amorevole studio da parte dei cittadini tutti, da parte dei giovani soprattutto, essendo essi gli edificatori della città futura, quali “caldi sognatori e trasgressori razionali per la costruzione di un presente”, con amore e fiducia, a dimensione umana, come scrive il Rapporto Censis 1987 (Angeli Editore, Milano 1987). E che Dante sia il grande maestro a cui tutti i pittori-poeti ancora oggi si devono rifare, lo insegna proprio Baudelaire che scrive una pagina di grande interesse, che pur andando oltre l’amore per Dante, toccando problemi finora tralasciati, è indubbiamente qui da riassumere: “Cherche la solitude”, “les choses qu’on àprouve seul avec soi sont bien plus fortes et vierges”; “Recuille-toi profondement devant la peinture et ne pense qu’au Dante” (op. cit. p. 96). Anche perché “la tecnica in arte è tutto”, e “un pittore deve tutto alla tecnica” perché “nous ne connaissons jamais ce que nous pouvons obtenir de nous-mèmes”. Tenendo presente che “La froide exactitude” non è arte. Mentre la tecnica significa “ragione morale, igiene, condotta”, un modo di agitare il corpo e lo spirito dall’indolenza, e di reagire a tutte le intermittenze e gli squilibri del genio. E pertanto tecnica come mezzo di superamento della tecnica stessa, cioè potere di dissimulare l’esecuzione e di variare continuamente le proprie impressioni, perché nel variare è la possibilità di obbedire ad una “èmotion vraie”. (…) E che la comunicazione di idee-sentimento sia necessaria, insopprimibile, lo dice anche Ficthe nelle sue famose cinque lezioni tenute ai giovani dell’Università di Jena nel 1794, lezioni che gli valsero l’immediata espulsione perché elaborate sulla base dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità esplosi con la grande rivoluzione borghese del 1789, … lezioni raccolte in La missione del dotto (trad. it. CEDAM, Padova 1939, pp. 53, 54 e passim), che afferma che l’uomo è caratterizzato da istinto sociale, e che “l’istinto sociale” “è istinto di comunicare e istinto di ricevere”, perché, essendo “il fine ultimo della società” “l’uguaglianza perfetta di tutti i suoi membri”, l’istinto di comunicare è “l’istinto di educare gli altri sotto quegli aspetti ove noi siamo educati particolarmente, l’istinto di rendere ciascuno altro, quanto vi è possibile, uguale a noi stessi, al nostro io migliore e più profondo”; e l’istinto di ricevere è “la tendenza istintiva a lasciarsi educare da ciascuno sotto quegli aspetti ove gli altri si mostrano particolarmente educati e noi ci sentiamo particolarmente imperfetti”. Tenendo presente che educare non è “mai servirsi degli esseri ragionevoli” e pertanto sociali, cioè degli uomini, per i propri scopi. A nessuno “è lecito di usarli come mezzi neppure per i loro propri fini”. Non è lecito “agire su di essi come sulla materia bruta o sull’animale onde realizzare per mezzo loro un qualsiasi scopo senza far conto alcuno della loro libertà. Non gli è concesso neppure di rendere virtuoso o saggio o felice alcun essere ragionevole contro la sua volontà”. Perché “nessuno può divenire virtuoso o saggio o felice se non col proprio lavoro e con la propria fatica” (ibidem, pp. 40, 41). Ma come si realizza la comunicazione di idee-sentimento? A questo quesito Peter R. Hofstaetter (Psicologia, trad. it. Feltrinelli, Milano 1964, p. 122) risponde fornendo uno schema del sistema di comunicazione che in questa sede si può così riassumere: contenuto della comunicazione ? simbolizzazione ? trasmissione dei segni con produzione motoria dei segni e quindi ricezione sensoriale dei segni stessi da parte del ricevente ? desimbolizzazione ? orientamento del ricevente, a seguito di appello al ricevente stesso perché cambi la sua vita, le sue idee. (…) Perché comprendere un’opera d’arte significa “riconoscere” la “natura di una cosa” (cioè le ragioni che hanno determinato le singole forme, i segni), e “afferrarne il senso riproducendola nel proprio intimo, quindi rivivendola”, e attribuirle significato inquadrandola nel proprio mondo di categorie e di valori (ibidem, p. 209). Il che comporta un giudizio sull’opera d’arte, in primis, in via immediata, irriflessa, e poi necessariamente in via mediata e riflessa, mediante l’intervento cioè della riflessione, delle capacità intellettivo-conoscitive, logico-concettuali. Ovvero alla prima immediata risposta: “questo mi piace e questo non mi piace”, deve seguire la risposta immediata: “per questa e quest’altra ragione storico-critica”.
La Pittura Metafisica. Giorgio Morandi.
Tullio Vietri, in “Critica Radicale”, 1990

Esaminate le posizioni teoriche e le opere di Giorgio de Chirico, e pertanto evidenziato il reale significato del suo “realismo dell’enigma”, ovvero del suo “enigmatismo” come qualcuno lo definisce; esaminate le posizioni teoriche e le opere di Carlo Carrà (da quelle di de Chirico nettamente lontane), e pertanto evidenziato il reale significato del suo “realismo magico” o “mitico”, rimangono da esaminare, non già le posizioni teoriche (che risultano mai siano state espresse in forma scritta), ma le opere di Giorgio Morandi. Al fine di evidenziare il reale significato del “mistero morandiano”, come lo definisce Francesco Arcangeli (Giorgio Morandi, Einaudi Torino 1981, p. 87), già pubblicato dalle Edizioni del Milione nel 1964). E pertanto di rispondere alle domande: è Morandi pittore metafisico? è più vicino a Carrà o a de Chirico? Ovviamente dopo aver stabilito se le opere sue seguono i canoni fissati da de Chirico per la sua pittura metafisica o da Carrà per la propria. Indubbiamente quanto scrive Arcangeli (op. cit. pp. 86, 87) facilita l’esame: “Reprimendo quella passione sentimentale che pur non manca di attrarlo”, Morandi porta la sua metafisica del 1918-19 … “al massimo di autorevole e disinteressata purezza, quella dell’antica tradizione mediterranea, di plastica così umanamente deificata, da includere in sè una immobile filosofia di gerarchia morale, di sacrale disciplina, di ordine armonico e non mutevole”.
E tutto ciò si ricava da una attenta lettura che lo stesso Arcangeli compie delle opere di tale periodo, nelle quali “la luce è stregata, un impossibile meriggio senza scampo assedia le cose, ma tutto è dominabile, e dominato dall’occhio e dalla mente (…)”.
Direi che si potrebbe essere d’accordo con le parole di Arcangeli se quel verbo usato al principio del discorso non distorcesse il reale significato, a mio avviso, delle posizioni espresse da Morandi. Reprimere infatti vuol togliere forza con la forza. Quindi togliere forza alla passione sentimentale.
Ragion per cui alla virtù reprimente, alla virtù del superamento della passione, si dovrebbe pertanto la “disinteressata purezza” della sua pittura che è “quella dell’antica tradizione mediterranea”. Non credo infatti si possa parlare di repressione-superamento della passione sentimentale in Morandi, così come non si può parlare di repressione-superamento della passione sentimentale in Picasso … Infatti dice Picasso, l’arte è dramma, frutto di tensione morale, di idee ed emozioni, delle emozioni del pittore “costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti (…) avvenimenti del mondo”, e che “si modella totalmente a loro immagine”. La pittura non è decorazione, ma “strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico” (Scritti di Picasso, a cura di Mario De Micheli, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 47, 69).
(…) Il parallelo Morandi-Picasso (e ovviamente de Chirico, che le parole di Leymarie chiaramente richiamano) non credo possa sembrare ardito. Anche perché questi autori hanno in comune qualche altra cosa di estremamente importante: la grande lezione di Cezanne. Per Morandi la lezione di Cezanne è indubbiamente fondamentale.
La forte tensione emotiva e formale delle sue opere, fin dal 1911, rimandano costantemente a Cezanne. A tutto Cezanne, e non solo al suo ultimo periodo, il periodo privilegiato dalla critica ufficiale. E pertanto alla pittura di Cezanne che, nel suo insieme valutata, non può non essere definita drammatica.
La pittura di Cezanne, infatti, è espressione sempre di quella forte tensione morale, di quella irruenza lirica, di quella emozione violenta, di quella rivolta contro l’esistente, che sono le caratteristiche della sua personalità, come attesta John Rewald (La Storia dell’Impressionismo, Mondadori, Milano 1976, p. 174). E sono proprio tali caratteristiche che consentono a Cezanne (perché “gli somigliano” direbbe Baudelaire) di amare profondamente Tintoretto e Michelangelo, Ribera e Zurbaran (e direi El Greco, come riconosce Lionello Venturi nel suo famoso studio su Cezanne del 1936), e Daumier e Delacroix.
E tramite la loro lezione di arrivare all’impressionismo con la lezione di Manet … Di Manet che amava … soprattutto quel Velazquez …che proveniva da Ribera e Zurbaran (e da El Greco, quindi) e che era amato da Courbet e Delacroix, da Daumier e Corot, da Degas e Renoir, così come è attestato da Leon Paul Fargue (Velazquez, Editions du Dimanche, Paris 1946, p. 3). Sono proprio tali autori (la loro lezione) che consentono a Cezanne di arrivare, come è attestato dai suoi disegni e dalla sua pittura fino al 1871/72, ad una sorta di espressionismo che fa pensare, in certi momenti a Nolde (vedi per esempio Autopsia, La toeletta funebre …); e poi fra il 1872 e 1878, ad un impressionismo che diventa sempre più sui generis; anzi ad una sorta di “post-impressionismo” caratterizzato sempre più dalla razionalizzazione-geometrizzazione in “cilindri, sfere, coni, il tutto messo in prospettiva”, così come dice Cezanne stesso in una lettera ad Emile Bernard (riportata in Cezanne, Lettere a cura di Duilio Morosini, Bompiani, Milano 1945, p. 107). “Post-impressionismo”, che certamente non è improvvisa, volontaristica, fredda, costruttivistica razionalizzazione-geometrizzazione dell’oggetto naturale nella sua verità oggettiva. Perché non è semplice “superamento” modo di uscire, di oltrepassare, di vincere, quello che da Lionello Venturi (La Via dell’Impressionismo, Einaudi Torino 1970, p. 263) sono chiamate “forzature … espressionistico-romantiche”… “Post-impressionismo”, che caratterizzerà tutta la sua produzione successiva, che è invece sintesi viva, composizione delle varie componenti, che pertanto sono sempre compresenti: il romanticismo della rivolta e contemporaneamente il classicismo della volontà della conoscenza e del tutto dominato e dominabile razionalmente. Del tutto che l’uomo deve dominare razionalmente.
A Cezanne “i cubisti devono quasi tutto. Picasso gli deve molto”, dice così Duilio Morosini nella prefazione al libro citato (p. 13) … A Cezanne anche Morandi deve indubbiamente molto. Alla sua lezione formale perché morale, e morale anche perché formale egli sarà sempre fedele. Non solo negli anni 1911-1914, ma anche nella fase cosiddetta futurista (che futurista non è, semmai cubista) del 1914-1915. E nella fase successiva (1916-inizio 1917) caratterizzata dal recupero di una certa lezione proveniente dalla “secessione” viennese (Klimt), filtrata molto probabilmente, dalla lezione ricevuta da Augusto Majani, suo insegnante all’Accademia di Bologna, giustamente ricordato come grafico, cartellonista e caricaturista di talento (si firmava in tali opere Nasica), fra i rappresentanti più tipici e validi della “scuola bolognese”, “fedele a una linea stilistica ed ideologica che in casi come il suo, qualifica il Liberty movimento di spinta democratica e di impostazione antiaccademica” (Rossana Bossaglia, Il Liberty, Sansoni, Firenze 1974, p. 124, 125). E probabilmente da una certa lezione, ovviamente sempre Liberty (come sembra attestato da Fiori, del 1917, in collezione privata milanese, al n. 31 del Catalogo generale Vol. Primo 1913-1947, Milano 1977 di Lamberto Vitali) ricevuta dal Bistolfi che nel 1907 era stato chiamato dal Comune di Bologna ad erigere il famoso monumento al Carducci all’indomani della morte del poeta.
(…) E alla stessa lezione cezanniana Morandi sarà fedele anche, ovviamente, nella sua fase cosiddetta metafisica (1918-1919) dipingendo il dramma della estrema razionalizzazione-geometrizzazione. In analogia, se si vuole, con quanto faceva Mondrian, espressionista alla Van Gogh e poi alla Munch negli anni fino al 1910-1911 (cioè a circa quaranta anni di età e dopo venti di pittura, come attesta Umbro Apollonio in Mondrian, Milano 1965, p. 4) e poi cubista.
(…) Quella di Morandi pertanto è una razionalizzazione-geometrizzazione di una protesta morale, di un risentimento, di una indignazione, e nello stesso tempo di una speranza nel buon senso borghese, negli ideali della tradizione borghese, nella libertà da essi garantita, perché “il concetto etico supremo è quello di libertà”, come dice Umberto Scarpelli (L’Etica senza Verità, il Mulino, Bologna 1982). Ovviamente senza sortilegio nè evocazione magica, come dice giustamente Cesare Brandi, ricordato da Arcangeli (op. cit. p. 79). Pertanto Morandi nel suo impegno etico è molto vicino a de Chirico, così come si ricava dalle sue opere, e certamente non a Carrà.
E’ vicino cioè a quel de Chirico che proclama la calma, la serenità e la potenza come senso e ragione di essere dell’arte nella sua azione di moralizzazione (Zeusi l’Esploratore, del 1911-15, riportato in Paolo Fossati, Valori Plastici 1918-22, Einaudi, Torino 1981, p. 87), con esclusione di ogni angoscia, stante la certezza della prospettiva. Perché “la potenza dell’intellettuale specializzato, artista e genio, (…) deve porsi come servizio di lotta politica”, dice di de Chirico, “per mutare le condizioni di fatto della situazione” (ibidem). De Chirico stesso, successivamente, su Valori Plastici del 1920, nutrendo ancora la speranza nella propria azione di moralizzazione (attraverso i suoi scritti e le sue opere d’arte), nel condannare l’esaltazione della guerra e le “baldorie futuriste” del dannunzianesimo, scrive “Gli isterismi e le cialtronerie sono condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia politiche, letterarie o pittoriche” (citato in Massimo Carrà, Metafisica, Mazzotta, Milano 1974, pp. 189, 190). Di fronte ai gravi avvenimenti politici di quegli anni (1919-1922), la violenza organizzata, il fascismo, questa struttura razionale sembra appannarsi, sembra incrinarsi in Morandi così come in de Chirico. Cade la prospettiva dell’effettiva azione nella realtà del loro impegno morale = sociale. Ma sono consapevoli entrambi della verità enunciata da Alberto Savinio nel n. 5 del 1920 di Valori Plastici (riportato in M. Carrà, op. cit. p. 243): “Quando nella mente dell’uomo il ricordo dell’ieri e la speranza del domani si oscurano, egli si affaccia alla soglia del nulla, della disperazione”.
E a tale disperazione essi si oppongono, in un estremo ricorso alla ragione, con esiti diversi, necessariamente. In de Chirico cade il rapporto passato (Grecia, Rinascimento)-presente (mondo industriale)-futuro enigmatico (“albe omeriche”), per dar luogo ad un presente senza passato nè futuro (la sua pittura fino al 1927-28), intervallata dal “romanticismo classicheggiante” delle Ville Romane, narrato nella sua drammaticità di condizionamento cogente dell’individuo senza spazio individuale, senza difesa; e successivamente, ponendosi del tutto al di fuori della metafisica così come da lui teorizzata precedentemente, negli anni 1915-1920, allorquando sente che tale condizionamento (intervenuta la “legge per la difesa dello Stato” nel novembre 1926, lo scioglimento dei partiti, la fine dello Stato liberale) non può non riguardare anche la sua stessa persona, si trasformerà nel passato ironico della favola, della beffa, nella vanagloria di capacità individuali, di qualità rare di pittore e di intellettuale che richiamano inevitabilmente quel secentismo e quel tecnicismo prima disprezzati, perché, diceva, “in arte, se è vera arte, la tecnica non ha nessun ruolo” (Zeusi l’Esploratore, op. cit. p. 86); perché “mostruosa vuotezza” e “favolosa sordità” “campeggiano e troneggiano nella pittura di quel secolo (…)” (La Mania del Seicento in P. Fossati, op. cit., p. 251).
In Morandi invece si avrà una ricerca di salvezza nel ricorso ad una certa descrittività naturalistica (1920-24) nel ricorso ad un certo impressionismo (Renoir, soprattutto), e quindi nell’approdo ad un certo intimismo. Ma è un breve ripensamento di quella lezione, di quella concezione del mondo, per approdare ad un certo ermetismo alla Montale, e non all’ermetismo “ingenuo” alla Ungaretti-Carrà caratterizzato dalla “poetica dell’assenza del tempo”, come dice Giuliano Manacorda (Montale, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 19).
Ad una sintesi di tutte le sue esperienze precedenti, favorita da rinnovati amori per Giotto, Masaccio e Piero. Tutti posti in un certo rapporto con Cezanne, e i “valori tattili”, così come bene indicato da Bernhard Berenson nei suoi famosi quattro libri dedicati alla pittura italiana fra 1894 e 1897.
(…) Tale sintesi compiuta da Morandi negli anni successivi il 1924-25 è la sintesi formale dovuta alla conquistata fede necessaria per vivere e sopravvivere, che sarà “fede nella poesia, intanto”, “il cui oggetto può riuscire oscuro e che consiste”, come dice Montale (Uomini e Idee a cura di Sandro Briosi, riportato in Giuliano Manacorda, op. cit. p. 9) “soprattutto nel vivere con dignità di fronte a se stesso, nella speranza che la vita abbia un senso, che razionalmente ci sfugge, ma che val la pena di sperimentare, di vivere”.
Questo sentimento vivo e profondo è quello stesso sentimento che dalle ragioni storiche contingenti è consentito agli uomini che avrebbero voluto ad essi opporsi, ma che non trovavano, non potevano o non sapevano trovare, per ragioni storiche antiche, tipiche di quel settore pacifistico e quietistico e democratico, anche se non socialista, della piccola borghesia italiana (ma non solo italiana) cui Morandi appartiene, le forze necessarie, i collegamenti necessari all’azione. L’approdo di Morandi è pertanto ad una pittura ancora drammatica, anche se in tono ridotto, rispetto al precedente, nella quale l’eco (non la immediatezza) della felicità di scoperta del sensibile che fu degli impressionisti e di molti post-impressionisti, risuona in lui entro la misura di una vita modesta, paga dell’esistente, in una apparente riduzione al mero rapporto io soggettivo-natura oggettiva. E’ proprio tale riduzione apparente che consente ad Arcangeli di avvicinare Morandi a Wols e a Fautrier, e quindi a Morlotti e a Burri. All’informale (op. cit., passim, in particolare pag. 133). E di sostenere (op. cit., pp. 128, 129) che Morandi “ha aperto, con pochissimi altri che non sono soltanto della pittura, la strada malcerta, sfibrante, angosciata di certi lenti, nascosti europei: Wols, tedesco sottile e profondo, erede di Klee, ma temprato sui vecchi vetri appannati, corrosi, dei bistrots di Parigi; Fautrier, sensualista talvolta aggressivo, più spesso stremato”.
E aggiunge “non è che io sogni di ascendenze che a Morandi potrebbero piacere o non piacere, per il gusto dell’attualità (…) Dirà che mi commuove estremamente la storia patetica di questa pittura, partita dal più alto magistero formale, e passata, grado a grado”, intuita “la vita delle antiche dimore, il germogliare disperato di pochi fiori”, a “questo sobrio, triste, casalingo informel” (ibidem, p. 129) … Ma da Morandi, come è noto, queste ascendenze e discendenze attribuitegli da Arcangeli, stante il loro evidente vuoto morale e intellettuale, il loro mero naturalismo, non furono accettate, approvate, ammesse, perché il formalismo in lui … il dare forma razionale, necessariamente razionale, alle sue emozioni profonde, dipendenti dalla sua concezione etica della vita individuale e sociale conformemente ai principi di eticità e responsabilità, è elemento costitutivo essenziale, elemento strutturale permanente, sempre presente e rintracciabile anche nel momento più “crepuscolare”. La esaltazione dell’informale fatta da Arcangeli non poteva, pertanto, non essere interpretata come condanna (e non già esaltazione come avrebbe voluto Arcangeli) delle componenti formali-ideologiche (sempre inscindibili) tipiche della pittura di Morandi. E Morandi così l’ha interpretata (come risulta da una chiara allusione contenuta in una lettera di Arcangeli, in data 22 aprile 1962 a me inviata ? il suo saggio era in tale data già sottoposto a Morandi ? e da testimonianze verbali di quell’epoca successivamente raccolte). Anche perché tale interpretazione trovava conforto in un’altra incomprensione di fondo della pittura morandiana, pur alla presenza di una esatta lettura testuale.
Arcangeli infatti dice, riferendosi a certe opere del 1929, che “Dalla squisita e profonda e talvolta quasi canoviana descrizione delle apparenze esterne”, “Morandi va tacitamente a picco entro se stesso”; e “senza perdere mai la realtà della figurazione egli preme dall’interno con così desolata forza da creare quasi, nell’effetto”(quindi apparentemente) “una sorta di rovesciamento del processo creativo che gli è proprio. Davvero pare, in un gruppo di opere (…), che Morandi sia partito da un motivo interiore” (op. cit. p. 168).
(…) Che Morandi, la pittura di Morandi, sia espressione della piccola borghesia, lo attesta Francesco Arcangeli (op. cit. p. 35). Io però direi che è espressione di quel settore tradizionale quietistico-pacifistico e democratico, anche se non socialista, della piccola borghesia, che si differenzia, per tali sue caratteristiche da un altro settore della piccola borghesia di formazione ottocentesca, in quell’epoca di declino economico e funzionale-strutturale. Da quel settore rappresentato, in fase ribellistico-eversiva, dagli intellettuali della “generazione del 1896”, della generazione che subisce la sconfitta di Adua e vive la “generale disillusione” che ne discende, unitamente alla angoscia generata dalla organizzazione, che si attua in quegli anni, della classe operaia e dalla sua comparsa sulla ribalta politica nazionale, che furono gli eventi decisivi che diedero il via al nuovo movimento nazionalista, antisocialista e anarcoide di D’Annunzio e Marinetti, di Mussolini e De Ambris, se pur diviso in anti-industrializzatori ed industrializzatori, almeno fino alla seconda guerra mondiale (cfr. Adrian Lyttelton, La conquista del potere, il Fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari 1974, passim, in particolare pp. 27, 79).
(…) La lezione di de Chirico e Morandi, pertanto, non può essere dimenticata. Così come non può essere dimenticata quella, bisogna dirlo chiaramente, non troppo da essa distante, anche se deve essere opportunamente purgata, di Sironi, metafisico, e prima, futurista sui generis come Morandi, e poi novecentista sui generis. Perché si deve riconoscere che Sironi è uno dei più grandi artisti del nostro secolo e che tutto ciò che fece “venne dettato dalla buona fede assoluta”, come dice Ettore Camesasca (prefazione a Mario Sironi, Scritti Editi e Inediti, Feltrinelli, Milano 1980, p. VII).
Venne dettato da “responsabilità artistica e umana”, da una fede profonda e da una concezione etica profonda che produssero (nonostante la parzialità e pertanto la falsità a livello scientifico, quindi oggettivamente, della problematica propria della teoria politica professata, anzi direi a causa proprio di tale parzialità sentita, vissuta come necessaria contraddizione insanabile con le esigenze etiche che come tali attengono all’uomo in generale, all’uomo come specie) un’arte fortemente drammatica, tendenzialmente tragica. Pertanto un’arte che “malgrado tutto, si dimostra coinvolta a fondo col suo tempo, nel male e nel bene”, come giustamente dice Ettore Camesasca (ibidem, p. XII), nel rilevare che, necessariamente “fare storia” (e ciò è vero per lo storico, ma anche e soprattutto per l’artista, stando a quanto dice Thomas Mann nelle Lettere a Paul Amann, Milano 1967, pp. 59, 190) “significa anzitutto riconoscere la società e le idee nelle quali un avvenimento si è svolto” e il modo nel quale ogni artista gestisce la fede nei dogmi sociali dominanti. Perché si deve riconoscere che Sironi è in maniera evidente espressione sincera di quel settore della stessa piccola borghesia italiana (e non) e del suo dramma. Di quel settore cioè al quale appartenevano D’Annunzio e Marinetti e poi Carrà e Soffici, Martini e Gentilini e Rosai, quel settore della piccola borghesia che ha creduto di potersi opporre con la violenza e con l’anti-industrialismo alla crisi strutturale-funzionale che colpiva l’individuo borghese. La loro lezione, pertanto e la lezione delle avanguardie storiche cui essi si ispirano e la lezione dei movimenti che tali avanguardie precedono, nonchè la lezione dei grandi maestri dal 1200 al 1800 che essi hanno amato, non possono legittimamente essere dimenticate.
Ovviamente dall’artista-intellettuale, “dal vero artista” che necessariamente “lavora senza preoccuparsi della critica e dei critici” come dice Cezanne (Lettere, op. cit. p. 115). E che pertanto si oppone all’artefice-artigiano, mero manovratore alle dipendenze dell’ideologo-duce di sarfattiana memoria, e di conseguenza del mercato. Non possono essere dimenticate dall’artista-poeta per il quale necessariamente arte-poesia è vita intellettuale e morale indissolubilmente coincidenti, come insegna Eugenio Montale (op. cit. p. 24).

Scritti su Tullio Vietri
La mostra di Tullio Vietri propone alcune considerazioni…
Aligi Sassu, 1960
Nella pittura bolognese ed emiliana di oggi risaltano alcune costanti molto precise: riferimenti alla astrazione metafisica, rintracciabili in una continuità di ricerche e di forme nella linea Morandi-Romiti, ed una sanguigna e corposa facoltà espressiva legata al carattere, al colore, alle forme dell’ambiente, evidente in pittori come Bertocchi, Borgonzoni, Corsi, Vacchi. La pittura di Vietri … mi pare viva di una contemporaneità non di gusto ma sostanziale, dovuta proprio alla sua elaborazione … attenta e libera a tutte le sollecitazioni che su un artista vivo e sensibile esercita la vita e il desiderio di “comunicare” con un certo pubblico, ad essere se stesso fino in fondo con la massima sincerità. E’ una sincerità che si rivela nella chiarezza e nella pulizia della forma, nella volontaria sobrietà e castigatezza del colore, nelle scelte dei soggetti, nei contenuti limpidamente evidenti dei ritratti, dei disegni … Vietri ci riconduce all’essenziale, pone l’accento sui contenuti più vivi ed attuali, ma che sono di sempre. L’uomo nella ‘strada’, le automobili, il paesaggio contaminato dalla presenza della nostra civiltà. Questo è evidente nei ‘muri’ e ancora nelle ‘teste’ di donne, nell’anonimo della ‘attesa dell’autobus’. Il segno è largo, ampio, definito, come lo spicco della partiture delle luci. La pittura si fa evidente, con forme colori linee definite. Di un’emozione che attinge nella ‘realtà’ la poeticità, e si fa poesia di oggi, di noi, di uomini che ci proponiamo ogni giorno la domanda ‘chi siamo’. Gli elementi positivi di queste opere, di questo momento di Vietri, mi sembrano interessanti, anche perché oltre ad indicarci una personalità di pittore impegnato in una ricerca viva ed attuale, non si estranea e non rinnega quanto è stato fatto in un recente passato da artisti che nell’ambito di ‘Corrente’ e del movimento realista, hanno per primi indicato e realizzato nell’arte italiana moderna, i contenuti e le forme di una rappresentazione di una realtà non allineata.
Tullio Vietri.
Gianni Celati, 1960
La visione di Vietri, sensibilizzata in senso sociologico, accentua la propria indagine e passa dai simboli più ovvi e comuni che apparivano nei ‘muri’ ad una sintesi dei propri motivi più consapevole, all’abbandono di ogni dato superfluo costituito appunto dalle scritte, dai cartelloni, dai titoli ecc. L’uomo è il solo simbolo di questi quadri, ed il suo volto, sempre deturpato, sembra ombreggiato, mai caratterizzato, lo fa apparire roso da un insetto informe, da un’angoscia ed una perplessità immanente, nella cui rappresentazione però il pittore non scade mai in una problematica esistenziale o soggettivistica, perché il mondo oggettivo lo coglie ben vivo fuori di sè e non è confuso con le visioni del proprio io. Questo, appunto perché quelle rappresentazioni non sono oggetti di una indagine esistenziale bensì sociologica. Potremmo … giungere a parlare di capitalismo e di neocapitalismo, o dell’irrazionalità della vita nel mondo occidentale, ma basta dire che tutti questi uomini senza volto scavati e indagati, queste facce nere e senza sguardo, magari con un cappello di traverso e la cravatta sulla camicia bianca, rappresentano l’irrazionalità che il pittore sente fuori di sè, nel perché della vita di questa gente, schiacciata oppressa confusa dall’atmosfera densa, dove a volte emerge qualche sprazzo di colore vivace come un richiamo esterno illusorio. Ed egli con freddezza analitica, razionale e spietata, lavora a colpi di spatola con pochi colori, tra cui il nero prevale sempre, a mostrarci la confusione, la mancanza d’umanità, l’alienazione incombente in una data realtà sociale. E questa forma è ben altro che un compromesso tra l’uso magmatico della materia ‘informel’ ed un generico figurativo ‘realista’. Perché direi che son raggiunti proprio dei toni opposti a quelli dell’informel e dell’art autre. Là infatti questo irrazionalismo, caos ed alienazione sono percepiti dal pittore come caratteristiche integranti del proprio io ed il pittore stesso non sa sottrarsi a questa routine stessa della vita, costruendo la propria coscienza in senso opposto, perciò il grande marasma che è intorno a lui lo sommerge … Al contrario Vietri non è sbandato e sommerso da questa irrazionalità, ma anzi è consapevole e sicuro di dove sta il male e lo scopre ogni momento intorno a sè nel mondo oggettivo e nella realtà sociale. Ed all’aspetto caotico della vita oppone la sua coscienza lucida, che in sostanza si identifica e si ritrova nella possibilità d’un giudizio morale verso quelle figure e quella realtà. Così pure i mezzi espressivi non indulgono mai ad un disfacimento pessimistico e l’uso irregolare delle masse di colore, l’incertezza dei contorni e degli sfondi … non è mai l’uso caotico e travagliato, la distruzione dello spazio e del disegno degli astrattisti, perché Vietri pur ottenendo molto spesso nei particolari un effetto visivo che si può avvicinare all’informel, sistema però sempre lo spazio razionalmente intorno a queste figure … fino ad ottenere una dimensione reale dove tuttavia circola un’atmosfera caotica ed informe. Da tutto ciò si può vedere quanto questa pittura sia un prodotto dell’intelligenza più che della facile intuizione liricizzante. (…) [In Vietri] … i dipinti migliori nascono da una precisa analisi della realtà, della nostra condizione umana, del disagio e del compromesso che ci circondano. In questo modo i simboli hanno riassunto il loro valore figurativo, le cose, le strade, gli alberi hanno il loro significato, fuori dal suo semplice schema compositivo del quadro. Questa è l’unica soluzione per ridare una necessità alla rappresentazione figurativa, al di là del naturalismo ottocentesco e del banale cronachismo neorealista … Perché solo così vi sarà una ragione per dipingere una natura morta o un paesaggio o una figura invece della sintesi e del caos delle loro forme, perché quella natura morta non sarà un pretesto per esprimere una data forma, ma un simbolo per noi pieno di significati. In questo modo finalmente la figura umana ha riacquistato interesse, perché con il suo aspetto di sottomissione all’ambiente, il quale impone su di essa la propria ombra e la propria atmosfera caotica fino a cancellare i lineamenti dal suo volto, è uno dei simboli pià significativi ed espressivi del nostro tempo, se, come qui avviene, l’indagine su di essa non è condotta ad un livello psicologico bensì sociale e storico.
L’opera di Tullio Vietri.
Stefano Bottari, 1962
L’opera di Tullio Vietri … fornisce una ‘impegnata testimonianza’ sulla condizione umana del nostro tempo … Lo squallore della pianura allagata, dalla cui vastità affiorano come spettri i segni della presenza umana, chiusi nella tristezza del loro silenzio, ritorna nei dipinti che prolungano la città in una periferia ‘senza nome’, come ‘senza nome’ sono i personaggi che si addossano ai muri stinti, con manifesti ormai senza tempo in attesa di un autobus, o si schiacciano contro i vetri dei negozi, isolati da una tristezza rassegnata e che più non alimenta desideri. Si tratta di un paesaggio che esprime in ogni luogo, nella campagna o nella città, la stessa condizione umana: la ‘condizione’ dell’anonimato, che è tanta parte della civiltà moderna, qui presentata con commossa partecipazione, e però al di fuori di ogni facile polemica, nel suo rovescio di barbarie. In quel rovescio … che, spogliando l’uomo della sua umanità, lo lascia senza nome e quel volto riempie di quella particolare tristezza che ignora ogni rimpianto.
L’Oggettivismo di Tullio Vietri.
Fortunato Bellonzi, 1968
Per realismo intendiamo un atteggiamento dello spirito che non registra semplicemente la realtà, ma la modifica e ne è modificato: una realtà totale, beninteso, che dunque non è soltanto un paesaggio, un personaggio o una natura morta, ma è l’assieme delle condizioni della vita, con i suoi problemi e con le sue speranze, fatto oggetto di osservazione, di giudizio, di proposte per il futuro, in modi che non sono programmatici, ma propri dell’arte, ossia contenuti in immagini, che … sempre eccedono ogni tentativo di indagine formalistica, rivelando un uomo alle prese con sè e col mondo esterno, partecipe delle responsabilità dell’esistenza, impegnato nelle scelte morali. Ebbene l’oggettivismo di Tullio Vietri, che … tiene di conto gli effetti visivi delle tecniche delle cosiddette comunicazioni di massa, quale la fotografia, il cinematografo, la televisione, il manifesto pubblicitario, avvalendosi, per denunciare drammaticamente la nostra condizione umana, di mezzi analoghi a quelli della civiltà dei consumi, è nella linea storica del realismo moderno, e costituisce uno dei rari esiti positivi del realismo socialista, troppo spesso smarritosi nella illustrazione senza mordente per aver fatto erroneamente capo ad una sorta di resurrezione del verismo ottocentesco. Aggiungeremo che Vietri guarda la imperiosa secchezza del reportage fotografico o della grafica pubblicitaria volendo combattere la schiavità tecnologica con armi pari; ma non utilizza nè la fotografia nè il cartellone altrimenti che come modelli di immediata presa visiva: tutto, nell’opera sua, è disegnato e dipinto, ciò che è ancora un indice del suo rifiuto dei prodotti dell’industria culturale. In questo lavoro artigiano, di disegno e di pittura, le lettere tipografiche che Vietri introduce hanno un sentimento, una collocazione e un risultato pittorico assai vicini a quelli conseguiti dall’avanguardia storica; e quando egli stampa la folla anonima sui muri lebbrosi della città che invadono la superficie dei suoi quadri, ottiene effetti che solo apparentemente possono assimilarsi a quelli che altri conseguono con gli strappi materialmente compiuti nello spessore delle affiches sovrapposte o con l’impasto materico della pittura informale, perché in realtà l’impegno di Vietri è ben più severo e respinge la casualità e il gioco, due idoli cari al vecchio estetismo che tuttora convive con noi. Quella folla anonima è una serie di impronte di uomini senza volume e senza proiezioni d’ombra … colti con la bruciante attualità della cronaca visiva e con quella carica emozionale che scatta dal rapprendersi nel nero in isole piatte, nettamente ritagliate, tra spezzate partiture di bianco e di nero (non però di luce e d’ombra) che evocano la violenza del flash. La pittura di Vietri è un documento della società contemporanea di cui sono rilevate con umore funereo l’alienazione e l’incomunicabilità. La commedia umana … è qui la tragedia degli uomini senza passato e senza avvenire, soli nella moltitudine.
Tullio Vietri artista ed intellettuale, testimone del secondo Novecento nel linguaggio della pittura.
Roberto Costella 2001
La storia artistica di Tullio Vietri si sviluppa nel secondo cinquantennio del Novecento, con un prologo che coinvolge gli anni Cinquanta ed un epilogo che si estende al secolo successivo. E’ la vicenda, insieme estetica e culturale, di un pittore alla ricerca di un linguaggio figurato per esprimere la storia sociale ed intellettuale, politica ed economica del proprio tempo. E’ l’esperienza di un artista partecipe del dibattito estetico ed ideologico nella stagione del revisionismo postavanguardista e della neofigurazione, dell’avvento dei linguaggi multimediali e sinestetici; ma anche dell’affermazione della tecnocrazia avanzata e della globalizzazione economica, del consolidamento della società di massa e dell’occidentalizzazione del mondo. Vietri opera a Bologna, luogo eletto a realtà urbana emblematica, ad osservatorio privilegiato, a specchio riflettente le dinamiche di trasformazione socio-economica delle cittù italiane. Del resto il capoluogo emiliano sembra avere, per tutti gli anni Sessanta e Settanta, una centralità ed una peculiarità giustificate sia in termini politico-economici che socio-culturali, ponendosi come polo alternativo, come laboratorio di nuove esperienze amministrative e cooperative, imprenditoriali e commerciali, urbanistiche e territoriali. […] La vicenda artistica di Vietri (…) conta molte stagioni estetiche che, attraverso una sintesi formale sempre più radicale, hanno conquistato un’espressività contenutistica sempre più forte e dura. Fasi precisamente contrassegnate hanno scandito i capitoli di una storia che, avviata dai secondi anni Quaranta e formatasi nel corso degli anni Cinquanta, è maturata e si è pubblicamente affermata negli anni Sessanta, ha rallentato relegandosi nel privato durante gli anni Settanta, è ripresa e si è rinvigorita ma sempre fuori dal mercato e dalla critica d’arte per tutti gli anni Ottanta. Se le stagioni artistiche possono essere associate biograficamente a nette prese di posizione esistenziali ed a precise situazioni storiche, le scelte estetiche ed ideologiche sono maturate con una continuità esemplare ed una coerenza inattaccabile: la pittura di Vietri, testimone delle dinamiche di trasformazione socio-economica della società industriale avanzata, si è evoluta in modo rigoroso e consequenziale raggiungendo esiti peculiarmente omogenei sia figurativamente che concettualmente. Già nel 1963 l’artista scrive che la tematica della sua pittura “potrebbe riassumersi con un unico titolo: l’uomo contemporaneo o meglio gli uomini nella società contemporanea”, precisando che si tratta di un’elaborazione che lo “ha portato a concepire in forma critica la realtà del mondo contemporaneo”, ad affrontare “il grosso problema dell’uomo-massa o meglio dell’uomo massificato”. Vietri ricercando “le cause dell’alienazione (…) momento particolare dell’attuale società” dichiara di aver “lavorato a ricostruire il personaggio, non più come uomo in generale, uomo astratto, ma uomo concreto, nella sua concretezza storica, nelle sue determinazioni concretamente storiche”. Tale puntuale e precoce autopresentazione, capace di individuare e dichiarare il nucleo della sua ricerca pittorica, non sembra sostenere solo i risultati figurativi degli anni Sessanta, ma, assurgendo a dichiarazione di intento, orienta e spiega tutto lo sviluppo artistico successivo: è una scelta di vita, di ricerca e di impegno culturale, che diviene il fondamento delle opzioni estetiche e del linguaggio iconografico. Come Gustave Courbet, Vietri intende essere artista del proprio tempo, documentare la storia a lui contemporanea, interpretare la società occidentale del secondo Novecento con la massima chiarezza formale, consapevolezza analitica e sincerità ideologica. Nel 1861 Courbet, padre del realismo pittorico, dichiara “Ogni epoca può essere rappresentata solo dai propri artisti, voglio dire dagli artisti che in quest’epoca sono vissuti. (…) E’ in questo senso che nego la pittura di avvenimenti storici applicata al passato. La pittura storica è essenzialmente contemporanea. Ogni epoca deve avere i suoi artisti che la esprimono e la rappresentano per i posteri. (…) Lo spirito umano ha il dovere di lavorare sempre sul nuovo, sempre nel presente, partendo dai risultati acquisiti” (in Courier du Dimanche). E’ l’intento e l’impegno di Vietri, è la sua ricerca continua e la progressione sistematica della sua opera. Egli oppone all’eclettismo estetico e all’indifferenza contenutistica di tanta arte del Novecento, un impegno intransigente e severo, teso a testimoniare la mutante condizione umana, a livello individuale e collettivo, nell’Occidente di fine millennio. La sua produzione evidenzia un antropocentrismo figurativo che nel corso degli anni diventa sempre più tragicamente drammatico, perché espressione di individui senza identità e memoria, vittime passive ed inconsapevoli della società dei consumi. La sua pittura sembra riprendere l’uomo là dove lo aveva abbandonato Francis Bacon denunciando, in un mondo totalmente estraneo e svuotato, una insopportabile e assoluta solitudine esistenziale, una angosciata e terminale condizione psicologica e spirituale. Nel primo numero della rivista Critica Radicale (da lui fondata e diretta dal 1989), confermando la morte della “pseudo-avanguardia post-bellica”, Vietri lamenta la presenza dilagante di un’arte “a-comunicativa, a-storica, a-patica, e pertanto a-morale e a-significativa”, ma soprattutto denuncia “la morte di ogni possibilità di fare arte, anche a livello minimale, perché gli uomini tutti ormai da troppo tempo sono adusati a non scavare più in se stessi (per conoscere se stessi e gli altri)”. Mette sotto accusa anche “la nostra società sempre più tecnicistica e tecnocratica. (…) la nostra società dell’individualismo di massa senza soggettività, la nostra società della caduta dell’immaginario, cioè della facoltà progettuale di sè e degli altri. (…) la nostra società dell’immaginario sempre più determinato dalla spettacolarizzazione … di arte e cultura, cioè dalla utilitaria spettacolarizzazione dell’umano amore e dolore, dei bisogni spirituali … dell’uomo”. La presa di posizione di Vietri diventa sempre più dura e definitiva; le distanze dal mondo della politica istituzionale, della cultura ufficiale e dell’arte accademica aumentano incolmabilmente. Nascono serie pittoriche ridotte cromaticamente al bianco e nero con commistioni di ocra e rosso, scandite da pennellate larghe ed approssimative, sporche e sbavate che riescono appena a suggerire corpi e volti, alberi e case, macchine e strade. Il pigmento si contamina con brandelli di giornali persi nel quadro, scombinati e confusi come carta da macero. e scene si ripetono in ossessiva e cruda iterazione, replicando maschere distorte, sagome nere, forme meccaniche, scatole chiuse, vegetazione combusta, corsie anonime. La dimensione post-storica preannunciata da P. P. Pasolini diventa la realtà sociale e spaziale dell’Occidente. mmagini di fine secolo sembrano quasi proporre un aggiornato “Trionfo della morte” insieme ad una cinica “Strage degli innocenti”; dalle ceneri delle guerre mondiali non si è evidentemente generato un mondo più civile e giusto, più libero e biofilo. Guernica di Pablo Picasso resta purtroppo opera vera e vicina, mostrandosi ferita aperta non rimarginabile e non cicatrizzabile: Guernica non è “ieri” ma anche “ora”, “adesso”; non è “là” ma anche “qui”, “ovunque”. Diversamente dal pittore spagnolo, la morte in Vietri non è evento cataclismatico, ma, in forma più subdola e non meno dolorosa, è quotidianità in atto, continuità temporale, condizione esistenziale individuale e quindi condanna collettiva. Vietri arriva a denunciare il tentativo di normalizzare l’assurdo presente storico tentando di spacciare per vita ciò che è inequivocabilmente non-vita. Sembra addirittura che la dimensione lamentata da Franz Marc durante il primo conflitto mondiale si sia estesa e perpetuata: “Viviamo in tempi duri. Duri sono i nostri pensieri. Tutto deve diventare ancora più duro” (Pensieri, 1915). Ilnosto tempo costituisce allora una drammatica continuità dolorosa? E’ davvero il Novecento “Secolo di tragica grandezza” (Massimo Cacciari, 1996)? La paura diffusa nella società occidentale durante gli anni della “guerra fredda” è generata dal rischio di conflitto atomico tra America e Russia, tra paesi capitalisti e socialisti; ma è soprattutto indotta dalla competizione tecnologica, mercantile e finanziaria, dalla tensione politica, sociale e psicologica e da una speculazione, sfruttamento e anche sopraffazione applicate a scala globale. La uerr all’inizio degli anni Novanta diventa stato di fatto, situazione reale localizzata; ma nel pianeta, oltre alla penisola arabica, altre terre (Albania, Iugoslavia, Somalia, Palestina, Algeria, Afghanistan) rischiano di diventare fronte bellico. Vietri, come cittadino prima che come artista, dipinge denunciando la violazione di diritti internazionali, di principi costituzionali, dichiarando in Donna e manifesto (1991) il suo assoluto e perentorio “NO” a tutto questo. Il disorientamento che si coglie nei dipinti dedicati alle piazze, il dinamico fuggire o l’immobilità paralizzata, l’annerimento dei soggetti coglie i valori estremi di una società che, consapevole della gravità della minaccia, cerca una salvezza in un mondo che non offre alcun rifugio e che non di prospettive di pace. E’ l’incubo del presente! Anche le macchine e gli edifici sembrano blindati ed esprimono ancora il tentativo di allontanarsi ma senza avere alcuna meta e la necessità di barricarsi sperando in una improbabile incolumità. Tutti i dipinti degli anni Novanta manifestano questa insanabile dicotomia che denuncia una alienata e schizofrenica condizione esistenziale. ‘ecissedell’uomo occidentale è clamorosamente evidente in Quattro uomini in piazza (1995), Cronache italiane 1995 (Due uomini in piazza) (1995) e Tre donne di spalle (1995): più che presenza antropica queste sagome oscurate, senza più identità ed energia, costituiscono forme entropiche. Fantasmi vaganti che si muovono lentamente dissociati dal suolo, in un contesto spaziale indistinto e cromaticamente irreale, appaiono in Piazza con figure nere ed ombre verdi (1991), per rimpicciolirsi, approssimandosi alla sparizione, in Piazza con figure nere disperse (1995). Sei figure nere in piazza (1996) passano anonime, vicine eppure invisibili nel loro vestito di tenebre, veloci eppure bloccate dalla loro insicurezza perenne. f esprime sempre più un movimento virtuale perché ogni possibilità dinamica viene negata dal sovraffollamento delle corsie, dalla disputa accanita per infilarsi negli ultimi spazi liberi, dalla lotta tra i grandi mezzi furgonati che impongono direzione e ritmo di avanzamento e le piccole automobili che sono costrette a subirli. Nel periodo 1996-97 i dipinti di alberi ed edifici, ancora presenti nelle opere d’inizio decennio, tendono a diminuire. Nella forma vegetale Vietri aveva interpretato simbolicamente l’uomo libero e naturale, così nell’edificio urbano esprimeva l’individuo radicato ad una dimora familiare, ad una comunità cittadina. Evidentemente l’essere è “in via di estinzione” se perde identità biologica e spirituale, se si preclude le relazioni affettive e sociali. Negumini del secolo l’artista dipinge soprattutto figure in piazza e veicoli in strada: sono immagini stereotipate, regressivamente deformate, sempre più anonime e indistinte che risultano imbrattate da carte incrostate o da gocce colate, ridotte a soli tre o quattro colori sporcati (bianco, nero, ocra e talvolta rosso). La parabola artistica di Vietri è dunque al tratto finale, la sua figurazione giunge al limite di un’astrazione che denuncia, attraverso un espressionismo drammatico, la perdita della forma, dello spazio e della luce […].
Quel che resta del corpo.
Gian Mario Villalta 2010
Ripetutamente Tullio Vietri ha raffigurato i gruppi di persone, la folla, le piazze gremite, i corpi della solitudine, della violenza e della perdita di identità della società di massa. Fin dagli anni Sessanta, e poi per lunghi intervalli, per decenni, la deprivazione dei volti, lo smarrimento dell’unicità del corpo, l’energia dell’immagine mediatizzata sono state un soggetto privilegiato della sua arte e insieme uno strumento di comprensione dell’uomo contemporaneo. L’avventura della forma capace di armonizzare il conflitto tra geometria e potenza, tra simbolo e cifra, non ha mai tradito il mandato, profondamente sentito come proprio, della responsabilità civile. Dinamiche esemplari, scansioni tese sul limite tra immobilità e velocità, immagini che marchiano lo sguardo al primo contatto. Con esse, attraverso di esse, la domanda radicale sulla contemporaneità, su che cosa stia avvenendo all’uomo mentre sta attraversando ? a causa della tecnologia, della comunicazione, della politica ? un mutamento antropologico tale che qualsiasi linguaggio appare insufficiente a descrivere. L’intuizione immediata, per chi posa lo sguardo su queste opere, è che la condizione psichica dell’uomo contemporaneo si possa ritrovare immaginata nella nuova realtà vissuta dai corpi. Il corpo numerato, esibito, perfettamente riconoscibile come forza, attività, ricettore di impulsi sociali. Il corpo che si rivela nella contraddizione apparente tra immobilità e movimento: è il luogo che abita a essere svuotato di simboli, uno spazio che si fa contenitore senza contorni, una piazza che è solo un campo di forze nella geometria del potere. corpi non gettano ombre, non hanno ombre che rivelano la loro umanità. Perché le ombre, come dice una poesia di Paul Celan intitolata Parla anche tu, sono la verità che ancora raccoglie il senso dell’umano: “Adesso dove andrai, spogliato delle ombre, dove?”. Le ombre sono l’attaccamento alla terra dei corpi, ma sono anche ciò che dei corpi si può sovrapporre, confondere, senza che i corpi si tocchino. Sono anche il legame dei vivi e dei morti. Acune opere più recenti riprendono questo tema. E’ impressionante come, ancora una volta, l’intuizione sia immediata pur nella sapiente elaborazione della forma. I volti sono vuoti, gonfiati, modellati sugli abiti. I corpi ingigantiscono progressivamente fino a quando, lo si intuisce, scompariranno.
Tullio Vietri pittore civile.
Roberto Costella, 2018
La figurazione di Vietri (…) non consente facili classificazioni: definirla arte pop è superficiale perché le sue immagini rifuggono da caleidoscopiche tavolozze, esteriorità sceniche, semplificazioni formali e mai ammiccano alla modernità; la sua produzione evoca però i Quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto, i Gesti tipici di Sergio Lombardo, forse i calchi ambientati di George Segal, le scene corali di Rosalyn Drexler, talvolta la grafica di Ferenc Pinter. Si tratta perà di spirito del tempo, di clima culturale, perché Vietri, dissociandosi dalla comunicazione convenzionale della pop art, evidenzia altra intenzionalità e valenza comunicativa. La sua iconografia ha come fondamento teorico l’estetica, la sociologica e la filosofia di György Lukács, Herbert Marcuse, Theodor Adorno, Walter Benjamin: è arte pregnante e semanticamente densa quella di Vietri. Eppure la nitidezza e la solidità visiva delle composizioni degli anni Sessanta-Settanta si sono progressivamente ridotte, perdendo chiarezza e definizione ottica per esprimere i nuovi e incerti orizzonti postmoderni. La svolta non è spiegabile con la ‘fine dell’avanguardia’ preconizzata da Cesare Brandi (1949), piuttosto con il ‘pessimismo dell’intelligenza’ che prevalendo sull’ ‘ottimismo della volontà, ha portato a destrutturare il campo pittorico. E’ l’aporia del vedere che ha cominciato a esprimere metaforicamente le difficoltà di orientamento, la perdita di identità e di progettualità del mondo contemporaneo, le tensioni e i conflitti della globalizzazione avanzata. La pittura di Vietri approssimandosi al XXI secolo, senza rinunciare alla referenzialità, ha iniziato a decomporre forme, contaminare colori, abbandonando tematicamente Strade, Case e Piazze, concentrandosi su Campagne deserte e Alberi spogli, Volti deformi e Persone perdute; la sua figurazione è divenuta iconografia del dolore, estrema e addirittura tragica, ma solidale con la vita oppressa e con la dignità offesa. Non è un caso che Vietri abbia intitolato l’ultima mostra Sono, persone e non cose per ribadire un antropocentrismo, un impegno civile e un appello per l’umanità contro la deriva in atto.
Tullio Vietri

L’ Atelier

L’atelier conserva la ricca collezione pittorica e grafica della famiglia (circa millecinquecento opere tra dipinti e grafica). Periodicamente organizza mostre temporanee al proprio interno in modo da favorire la conoscenza della collezione, esponendo le opere a rotazione.

Si trova a Bologna in via Saragozza 135 sotto lo storico portico di San Luca.
Visitabile su appuntamento da ottobre a giugno, anche con vista guidata.

Tullio Vietri

Il Museo

La Biblioteca Civica, gestita dalla Fondazione Oderzo Cultura, espone il nucleo centrale della collezione di proprietà del Comune di Oderzo, per volontà dell’artista custode delle sue opere (circa quattromila tra dipinti e grafica).

Si trova a Oderzo (TV) in via Garibaldi 80 presso la Biblioteca Civica.
Visitabile durante l’orario di apertura della biblioteca e su appuntamento.